Intelligenza digitale a prova di privacy ma si fa ancora poco

Intelligenza digitale a prova di privacy ma si fa ancora poco

Repubblica Affari&Finanza  28 gennaio 2019 
Nell’era delle fake news, degli account falsi, delle password violate e dei dati rubati, la fiducia dei consumatori e delle aziende rappresenta un fattore imprescindibile per chiunque offra un prodotto o un servizio digitale. La crescente apertura degli italiani nei confronti delle nuove tecnologie, dall’Internet of Things all’intelligenza artificiale, sta senz’altro favorendo una discesa del livello di diffidenza. Attenzione però a far troppo affidamento su questo trend, perché la cosiddetta “fiducia digitale” è per sua natura piuttosto precaria.
Negli ultimi tempi il rapporto di utenti e imprese con l’innovazione tecnologica si sta facendo sempre meno teso, anche se restano alcune preoccupazioni legate soprattutto ai temi della privacy e del lavoro.
Secondo il rapporto “L’insostenibile leggerezza dell’essere digitale nella società della conversazione”, realizzato dal Censis in tandem con l’Agi, il web è comunque ormai diventato un ecosistema intenso e totalizzante. In questo contesto gli italiani mostrano alcuni atteggiamenti paradossali: ad esempio, non si fidano delle modalità con cui i giganti del web gestiscono i loro dati, ma non si curano più di tanto se sono tracciabili, identificabili e raggiungibili. È inoltre curioso notare come la diffusione delle fake news, i comportamenti scorretti protetti dall’anonimato e altri fenomeni negativi, siano percepiti quasi come un prezzo da pagare per vivere online. E soprattutto per farlo gratis: l’introduzione di un canone o di una tariffa determinerebbe infatti l’abbandono di circa 2/3 degli utenti dalle grandi piattaforme gratuite. Particolarmente sentiti sono anche i temi della sicurezza informatica e della privacy.

 

Andrea Frollà 

Nell’era delle fake news, degli account falsi, delle password violate e dei dati rubati, la fiducia dei consumatori e delle aziende rappresenta un fattore imprescindibile per chiunque offra un prodotto o un servizio digitale. La crescente apertura degli italiani nei confronti delle nuove tecnologie, dall’Internet of Things all’intelligenza artificiale, sta senz’altro favorendo una discesa del livello di diffidenza. Attenzione però a far troppo affidamento su questo trend, perché la cosiddetta “fiducia digitale” è per sua natura piuttosto precaria. Negli ultimi tempi il rapporto di utenti e imprese con l’innovazione tecnologica si sta facendo sempre meno teso, anche se restano alcune preoccupazioni legate soprattutto ai temi della privacy e del lavoro.
Secondo il rapporto “L’insostenibile leggerezza dell’essere digitale nella società della conversazione”, realizzato dal Censis in tandem con l’Agi, il web è comunque ormai diventato un ecosistema intenso e totalizzante. In questo contesto gli italiani mostrano alcuni atteggiamenti paradossali: ad esempio, non si fidano delle modalità con cui i giganti del web gestiscono i loro dati, ma non si curano più di tanto se sono tracciabili, identificabili e raggiungibili. È inoltre curioso notare come la diffusione delle fake news, i comportamenti scorretti protetti dall’anonimato e altri fenomeni negativi, siano percepiti quasi come un prezzo da pagare per vivere online. E soprattutto per farlo gratis: l’introduzione di un canone odi una tariffa determinerebbe infatti l’abbandono di circa 2/3 degli utenti dalle grandi piattaforme gratuite. Particolarmente sentiti sono anche i temi della sicurezza informatica e della privacy.

DOPPIO FRONTE Su quest’ultimo doppio fronte gli utenti si presentano spesso senza precauzioni: un utente su cinque non adotta nemmeno le cautele minime, oltre la metà tende a non leggere le informative sulla privacy. Strano per un’utenza che in maggioranza non si fida della gestione dei dati da parte di social network e motori di ricerca (va meglio invece con soggetti pubblici, banche e siti di e-commerce). La fiducia digitale è anche uno dei filoni dello studio “Retail transformation”, elaborato dal Digital Transformation Institute in collaborazione con il Centro di formazione management del terziario (Cfint). Da una lettura trasversale dei dati emerge una sorta di “diffidenza ingenua” da parte degli italiani rispetto al mondo dell’innovazione, dovuta all’assenza di una piena consapevolezza delle dimensioni effettive delle sfide digitali. Il risultato è l’oscillamento tra l’eccesso di fiducia e il complottismo, senza troppe mezze misure. L’apertura nei confronti del futuro potrebbe però aiutare a raggiungere un equilibrio: gli italiani si dichiarano infatti fiduciosi, sorpresi e addirittura curiosi rispetto alle tecnologie abilitanti della trasformazione digitale. L’Internet of Things, la blockchain, i big data e l’intelligenza artificiale, rileva il rapporto del Digital Transformation Institute, avranno un impatto positivo per oltre il 50% degli utenti. Percezione da prendere però per le pinze data la scarsa esperienza e competenza tecnologica: solo 1134% ha sentito parlare di intelligenza artificiale e oltre 1/3 non sa cosa siano né a cosa servano i big data, per non parlare della blockchain. L’assenza di competenze si fa naturalmente sentire anche in tema di lavoro. E non è un caso che secondo uno studio di Swg, presentato in occasione dell’ultima edizione di State of the Net, l’impatto della tecnologia sull’occupazione rappresenti attualmente il tema più divisivo dell’innovazione: il 42% dell’opinione pubblica ritiene che robot e algoritmi non ruberanno posti di lavoro, il 47% sostiene al contrario che ciò avverrà. Rispetto a questi temi, gli italiani si dividono in tre grandi categorie.

I “DATAIST” E GLI “HUMANIST” I “dataist” (10%), che affiderebbero la loro vita agli algoritmi, e gli “humanist” (13%), che rifiutano la sostituzione dell’intelligenza umana. La ricca quota restante crede invece che ci attenda un futuro ricco di sinergie a lungo termine tra il fattore umano e la componente tecnologica. Gli italiani sono inoltre convinti che gli algoritmi siano già pronti per giocare un importante ruolo di assistenza in alcune attività come la composizione di musica, la gestione delle risorse umane e perfino il giardinaggio. Resta però il timore diffuso che la convivenza uomo-tecnologia possa generare squilibri negativi, soprattutto in termini sociali ed economici. Insomma, il termometro della fiducia digitale non ha ancora raggiunto una temperatura ottimale e sicuramente è anche colpa di vicende eclatanti. Dall’avvento del ransomware Wannacry, che fra il 12 e il 13 maggio 2017 ha infettato 200mila sistemi informatici sparsi in 150 Paesi nel pianeta, colpendo i pc non aggiornati di ospedali, università e utenti. Fino al furto di oltre 770 milioni di e-mail e 21 milioni di password scoperto qualche giorno fa dal ricercatore australiano Troy Hunt, passando per lo scandalo Cambridge Analytica che ha travolto Facebook a inizio 2018. Eventi che hanno messo a dura prova la pazienza degli utenti, in gran parte però ancora disposti a scommettere sulla bontà della digitalizzazione e a concedere l’ennesima dose di fiducia digitale. Un’iniezione preziosa di cui le aziende non dovranno ovviamente abusare, altrimenti correranno il rischio di essere punite dagli utenti stessi.

ISTITUZIONI INTERNAZIONALI La delicatezza del tema è dimostrata pure dall’attenzione crescente delle grandi istituzioni internazionali. Il World Economic Forum l’ha inserito tra i filoni principali del meeting annuale di Davos, andato in scena la scorsa settimana in Svizzera. La partita è senz’altro delicata, anche perché non esiste una soluzione magica. C’è chi invoca una regolamentazione più stringente nei confronti dei colossi del web, chi auspica l’adozione di policy di autocontrollo, chi chiede maggiori investimenti sulla cultura digitale. O ancora chi batte il ferro dell’etica dell’innovazione, nella speranza di toccare le corde più “umane” delle aziende. Le strade percorribili sono diverse tra loro, ma non per questo si escludono a vicenda. E anzi, forse la soluzione migliore si nasconde proprio nell’equilibrio delle varie istanze. Mettere d’accordo i governi, le imprese, i consumatori, le associazioni e gli esperti non è mai stato né sarà semplice, però vale senza dubbio la pena provarci.

 

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